La dittatura del
menu degustazione:
menu degustazione:
perché il cliente non ha
(quasi) mai ragione
di Fabio
Cagnetti
Cagnetti
In principio era la nouvelle cuisine: chef come Paul Bocuse e Marc Veyrat utilizzavano
il proprio nome come ragione sociale, combinavano le tecniche della tradizione
con l’enfasi sulla stagionalità delle
materie prime e ricercavano l’eleganza,
non più l’opulenza. La maggior parte delle loro proposte erano menu
degustazione di quattro, cinque, sei portate, verso cui il cliente veniva
“naturalmente indirizzato” anche dal confronto con i prezzi del menu à la
carte. Col tempo, più negli Stati Uniti che in Europa, il numero delle portate dei menu è andato aumentando,
fino ad arrivare a metà anni Novanta: in quel periodo, due erano i ristoranti
di riferimento a livello mondiale, El Bulli a Roses, due ore di guida da
Barcellona, e The French Laundry, nel cuore della zona vinicola della Napa
Valley, California. I punti di partenza erano diversi: laddove Ferran Adrià
muoveva dalla rustica cucina catalana trasfigurandola completamente con
tecniche che portarono al conio del termine “cucina molecolare”, Thomas Keller realizzava alla French Laundry,
con ingredienti californiani, piatti di decisa ispirazione francese. Ma il
tratto comune era il numero di portate,
che arrivavano a 40 o 50, senza che al cliente fosse data la possibilità di
scegliere cosa mangiare. Questi due locali, che per un lustro hanno dominato la
celebre, influente e criticata lista World’s 50 Best sponsorizzata dall’acqua
San Pellegrino, hanno instillato nei ristoratori più ambiziosi quella che oggi
viene definita “tirannia del menu”. Il concetto
secondo cui il cliente avrebbe sempre ragione appartiene al passato, oggi
sempre in più locali, non è concesso ordinare alla carta, e vengono inflitti percorsi le cui portate non
possono essere contate sulle dita di due mani. La durata media di un pasto è di quattro o cinque ore, forse ancora
plausibile per noi europei abituati ai pranzi delle grandi occasioni, ma meno
negli Stati Uniti dove è più generalizzata l’idea che chi va a mangiare in un
ristorante importante poi faccia anche dell’altro, nel corso della giornata. A
ciò si aggiunga che gli assaggi si
susseguono in tavola a un ritmo che ha il sapore della marcia forzata, e
che inevitabilmente, col proliferare delle portate, non tutte brilleranno allo
stesso modo, e anche sulle migliori tavole compariranno dei filler, cioè dei
riempitivi. L’esperienza gastronomica è sempre meno cucina come l’abbiamo
conosciuta finora e sempre più
installazione, performance, spettacolo preparato nei minimi dettagli,
dettagli che non spetta al fruitore decidere. Il Noma di Copenhagen oggi considerato il miglior ristorante sul
pianeta dalla classifica sopra menzionata, si uniforma nella sostanza a questa
tirannia: il menu è fisso, comprende 20
assaggi e gli antipasti che precedono le portate vere e proprie si
succedono con ritmo incalzante. Tuttavia, quella di René Redzepi è una
tirannide dal sapore di despotismo illuminato, in quanto i cuochi che servono
ai tavoli fanno il possibile per coinvolgere i clienti, non farli sentire
passivi, spiegando o non spiegando cosa c’è nel piatto in ossequio ai desideri
di chi è seduto. Ma la strada perché il cliente sia al centro dell’esperienza
gastronomica, più che lunga, sembra negletta, piena di sassi ed erbacce.
il proprio nome come ragione sociale, combinavano le tecniche della tradizione
con l’enfasi sulla stagionalità delle
materie prime e ricercavano l’eleganza,
non più l’opulenza. La maggior parte delle loro proposte erano menu
degustazione di quattro, cinque, sei portate, verso cui il cliente veniva
“naturalmente indirizzato” anche dal confronto con i prezzi del menu à la
carte. Col tempo, più negli Stati Uniti che in Europa, il numero delle portate dei menu è andato aumentando,
fino ad arrivare a metà anni Novanta: in quel periodo, due erano i ristoranti
di riferimento a livello mondiale, El Bulli a Roses, due ore di guida da
Barcellona, e The French Laundry, nel cuore della zona vinicola della Napa
Valley, California. I punti di partenza erano diversi: laddove Ferran Adrià
muoveva dalla rustica cucina catalana trasfigurandola completamente con
tecniche che portarono al conio del termine “cucina molecolare”, Thomas Keller realizzava alla French Laundry,
con ingredienti californiani, piatti di decisa ispirazione francese. Ma il
tratto comune era il numero di portate,
che arrivavano a 40 o 50, senza che al cliente fosse data la possibilità di
scegliere cosa mangiare. Questi due locali, che per un lustro hanno dominato la
celebre, influente e criticata lista World’s 50 Best sponsorizzata dall’acqua
San Pellegrino, hanno instillato nei ristoratori più ambiziosi quella che oggi
viene definita “tirannia del menu”. Il concetto
secondo cui il cliente avrebbe sempre ragione appartiene al passato, oggi
sempre in più locali, non è concesso ordinare alla carta, e vengono inflitti percorsi le cui portate non
possono essere contate sulle dita di due mani. La durata media di un pasto è di quattro o cinque ore, forse ancora
plausibile per noi europei abituati ai pranzi delle grandi occasioni, ma meno
negli Stati Uniti dove è più generalizzata l’idea che chi va a mangiare in un
ristorante importante poi faccia anche dell’altro, nel corso della giornata. A
ciò si aggiunga che gli assaggi si
susseguono in tavola a un ritmo che ha il sapore della marcia forzata, e
che inevitabilmente, col proliferare delle portate, non tutte brilleranno allo
stesso modo, e anche sulle migliori tavole compariranno dei filler, cioè dei
riempitivi. L’esperienza gastronomica è sempre meno cucina come l’abbiamo
conosciuta finora e sempre più
installazione, performance, spettacolo preparato nei minimi dettagli,
dettagli che non spetta al fruitore decidere. Il Noma di Copenhagen oggi considerato il miglior ristorante sul
pianeta dalla classifica sopra menzionata, si uniforma nella sostanza a questa
tirannia: il menu è fisso, comprende 20
assaggi e gli antipasti che precedono le portate vere e proprie si
succedono con ritmo incalzante. Tuttavia, quella di René Redzepi è una
tirannide dal sapore di despotismo illuminato, in quanto i cuochi che servono
ai tavoli fanno il possibile per coinvolgere i clienti, non farli sentire
passivi, spiegando o non spiegando cosa c’è nel piatto in ossequio ai desideri
di chi è seduto. Ma la strada perché il cliente sia al centro dell’esperienza
gastronomica, più che lunga, sembra negletta, piena di sassi ed erbacce.
E in
Italia?
La maggior parte dei ristoranti propone menu degustazione tra sei e otto portate; quello di Uliassi a Senigallia,
generalmente considerato tra i più impegnativi, dichiara dieci assaggi ma
comprende in genere dei “fuori programma” che aumentano questo numero, mentre
l’Osteria Francescana di Massimo
Bottura, miglior ristorante d’Italia per plebiscito, fa tredici con il suo menu
“Sensazioni”. Tuttavia in entrambi i locali, come nella stragrande
maggioranza dei ristoranti italiani, sono disponibili sia percorsi di
dimensioni più ridotte sia la possibilità di mangiare alla carta, in genere a
prezzi meno punitivi che all’estero. Uno dei menu più lunghi in cui mi sono
imbattuto di recente è “Zenit” di Pietro
Leemann, chef del Joia di Milano, che arriva a infilare sedici assaggi in una seduta, tuttavia
anche in questo caso si tratta della più impegnativa tra numerose proposte, che
a pranzo comprendono anche una formula a 35 euro con due piatti e un dessert a
scelta. E’ però vero che, scegliendo (volontariamente, nella quasi totalità dei
casi) il percorso più lungo un pasto
durerà quattro o cinque ore, ma
la differenza di ritmo con i locali citati più sopra è netta: da noi, dove il
pranzo per antonomasia è quello della domenica, sono i tempi a dilatarsi, più
che gli spazi. Insomma, se in altri ambiti potrei avere qualche riserva nello
scrivere le stesse parole, per quanto
riguarda la ristorazione l’Italia è fulgido esempio di democrazia, lontana
dagli eccessi d’oltreoceano. L’insediamento della dittatura del menu è solo
questione di tempo, o le nostre difese immunitarie sono forti? Lo scopriremo
solo vivendo.
Italia?
La maggior parte dei ristoranti propone menu degustazione tra sei e otto portate; quello di Uliassi a Senigallia,
generalmente considerato tra i più impegnativi, dichiara dieci assaggi ma
comprende in genere dei “fuori programma” che aumentano questo numero, mentre
l’Osteria Francescana di Massimo
Bottura, miglior ristorante d’Italia per plebiscito, fa tredici con il suo menu
“Sensazioni”. Tuttavia in entrambi i locali, come nella stragrande
maggioranza dei ristoranti italiani, sono disponibili sia percorsi di
dimensioni più ridotte sia la possibilità di mangiare alla carta, in genere a
prezzi meno punitivi che all’estero. Uno dei menu più lunghi in cui mi sono
imbattuto di recente è “Zenit” di Pietro
Leemann, chef del Joia di Milano, che arriva a infilare sedici assaggi in una seduta, tuttavia
anche in questo caso si tratta della più impegnativa tra numerose proposte, che
a pranzo comprendono anche una formula a 35 euro con due piatti e un dessert a
scelta. E’ però vero che, scegliendo (volontariamente, nella quasi totalità dei
casi) il percorso più lungo un pasto
durerà quattro o cinque ore, ma
la differenza di ritmo con i locali citati più sopra è netta: da noi, dove il
pranzo per antonomasia è quello della domenica, sono i tempi a dilatarsi, più
che gli spazi. Insomma, se in altri ambiti potrei avere qualche riserva nello
scrivere le stesse parole, per quanto
riguarda la ristorazione l’Italia è fulgido esempio di democrazia, lontana
dagli eccessi d’oltreoceano. L’insediamento della dittatura del menu è solo
questione di tempo, o le nostre difese immunitarie sono forti? Lo scopriremo
solo vivendo.
Crediti : Dissapore