Cosa dirà Massimo Bottura a Identità Golose

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Cosa dirà Massimo
Bottura a Identità Golose 2013? Aspettare il suo intervento come quello delle
nostra rockstar preferita
di Fabio Cagnetti


La
nona edizione di Identità Golose è ormai alle porte, anche quest’anno con un
vero parterre de rois tra i relatori, in particolare nella giornata di lunedì:
da Cracco a Scabin, da Crippa a Joan Roca, ogni aristochef è a Milano. E poi,
al centro di tutto questo, nell’ora di punta subito prima della pausa, l’unico
headliner possibile: Massimo Bottura.
Il
più grande dei nostri chef, più d’ogni suo collega, ha dimostrato di essere a
suo agio in questa formula, avendoci regalato riflessioni di estremo interesse,
con un dna tipicamente visionario, a volte persino troppo (nel suo staff
qualcuno lo prende in giro per questo) ma comunque di grande impatto. Nel 2010,
in un clima di caccia alle streghe, con gli attacchi alla cucina contemporanea
perpetrati da Striscia la Notizia, disse davanti a una platea gremita:
“Dietro
i fornelli non rinnego il passato, io attingo dal passato. Io non faccio
rivoluzioni, io cerco di evolvermi cavalcando il tempo e proiettandomi nel
futuro! Le contaminazioni per me sono un punto di partenza non di arrivo.
Pensate alla patata che ci ha messo tre secoli prima di essere accettata.
Pensate al pomodoro inizialmente considerato velenoso.
Le contaminazioni vanno
avvicinate con curiosità e saggezza”.
Parole
che dovremmo stamparci e leggere due volte prima di vomitare commenti pieni di
pregiudizi sugli insetti come ingrediente in cucina, noi per primi, senza avere
mai fatto esperienze in materia.
E
ancora, a ribadire quale deve essere il ruolo di chi vive, lavora e respira in
mezzo al cibo:
“Dobbiamo
conoscere il fruttivendolo, il pescatore, il macellaio, sapere da dove arrivano
le uova e le galline, conoscere il casaro, visitare le fattorie e i campi dei
contadini: CONOSCERE LA DIFFERENZA TRA FRESCO E IL ‘PIU’  FRESCO”.
Per
poi chiudere con quello che è sempre stato anche il mio consiglio (assieme a
“imparate a fare bene qualcosa che sapete fare solo voi o quasi”) ai giovani, a
chi non ha ricordi diretti delle Notti Magiche di Italia ’90 e figuriamoci del
Mundial di otto anni prima:
Cercate
dentro di Voi , studiate, approfondite i vostri interessi magari un giorno si
trasformeranno in PASSIONI! Viaggiate, viaggiate, imparate ma non dimenticatevi
MAI chi siete e da dove venite”.
Diventato
ormai il momento culminante del congresso di cucina milanese, l’anno scorso il
suo speech “Dall’osteria all’Osteria” è stato un tripudio, non credo di avere
mai visto una simile calca in un contesto gastronomico, e non perché ci fosse
qualcosa da mangiare, anche se sì, passarono tra il pubblico anche assaggi dei
classici della Francescana. Fulcro del discorso, l’idea che tutto cambia perché
tutto rimanga uguale, e che un Paese senza visione di futuro muore lentamente.
Cosa
dirà questa volta Massimo Bottura a Identità Golose?
Scambiate
con lo chef, mesi fa, in tempi non sospetti, alcune riflessioni sulle cose
della cucina contemporanea, oggi abbiamo provato a immaginare i temi del suo
intervento (i grassetti sono interamente miei).
“Io
sono uno chef Italiano. Sono cresciuto sotto il tavolo della cucina fuggendo
dai miei fratelli maggiori; mi rifugiavo dietro le ginocchia di mia nonna
Ancella, mentre tirava la pasta con il mattarello, e con un po’ di farina sul
naso rubavo i tortellini crudi sapientemente e ordinatamente preparati dalle
donne di casa. All’Osteria Francescana noi guardiamo ancora il Mondo da sotto
il tavolo”.
Come
dire: Noi cerchiamo di proiettare il meglio del passato, filtrato da un
pensiero critico e non nostalgico, nel futuro.
Vista
l’erronea concezione da parte dell’uomo della strada, dell’alta cucina (termine
che non mi piace del tutto: esiste una bassa cucina, ma è solo parte di quella
che non è definita alta), sono concetti che è necessario ribadire. Qui il
termine “Osteria” nella ragione sociale non è posa né antico retaggio, e fra
tutti gli chef contemporanei più in vista Bottura è senz’altro quello i cui
legami con la tradizione sono più saldi. I piatti sopra e sotto il tavolo — mi
viene da pensare che sarebbe un bel nome per un menu –, richiamano nella forma
(il croccante di foie gras) o nei sapori (compressione di pasta e fagioli,
cinque consistenze di Parmigiano Reggiano, bollito non bollito) quelli della
nostra infanzia e della nostra quotidianità. Non ci sono effetti visivi da
cinema multisala, si vuole stimolare con la finezza del gioco di ingredienti e
tecniche, senza stupire tanto per il gusto di farlo. E c’è un intero menu
dedicato ai piatti della tradizione, a quei piatti che, se altri chef “di nome”
inseriscono nei loro percorsi, costituiscono di solito mera provocazione.
“La
cultura è divenuta la forza motivazionale che ci aiuta in questa analisi e che
fa evolvere la nostra cucina: la cultura genera conoscenza; la conoscenza ci
conduce alla coscienza e la coscienza genera responsabilità. Ogni pensiero,
immagine, memoria è compresso nei nostri bocconi”.
Come
dire: Il cibo non è solo la qualità delle materie prime, ma anche la qualità
delle idee.
Uno
chef non dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – trasformare solo ingredienti
materiali, ma aggiungervi storia, cultura, idee. In un piatto dovrebbero
coesistere il tangibile e l’intangibile. Una cucina di ricerca dovrebbe
trasformare l’atto del mangiare da processo fisico-chimico a sinestesia. C’è
differenza tra nutrirsi, mangiare, e l’esperienza di un piatto contemporaneo.
“L’artista
concettuale Joseph Beuys credeva che l’arte potesse letteralmente trasformare e
curare l’umanità. Una delle sue opere più importanti è Capri Battery: una
lampadina gialla in una presa portatile collegata ad un limone. La batteria
suggerisce che arte, scienza e natura possono nutrire e curare una cultura
malata con un’energia quasi magica”. Con in mente Capri Battery mi sono
chiesto: “Come può l’immagine di un bosco innevato diventare edibile? E’ un
sogno? Che ruolo ha il mondo naturale in cucina? L’arte, appartiene al mondo
della cucina? Che ruolo ha la tecnologia in tutto questo? Sono proprio queste
le domande che guidano le mie avventure culinarie”.
Come
dire: Ognuno di noi traduce la propria personale narrativa (quella speciale
combinazione di sentimenti, memorie ed emozioni) in un linguaggio chiamato
cibo.
La
chiave per capire che non c’è pretenziosità in queste parole è la conoscenza
almeno marginale della figura di Beuys, uno dei cui concetti fondamentali è che
“siamo tutti artisti”. Un’idea che per l’epoca era dirompente e rivoluzionaria,
e che Beuys enfatizzò con la rinuncia volontaria a una serie di stilemi
dell’arte.
Se
permettete una divagazione personale, è un discorso non così distante da quello
volto a dare la giusta valenza artistica alle canzoni degli 883. Nonostante
l’ingenuità, nonostante la produzione di Claudio Cecchetto, nonostante tutto,
Max Pezzali è perfetto interprete della sfiga e della vita di provincia, di
concetti elementari e ricordi adolescenziali di facile e forte impatto, genuini
e veraci. Oltre arrivò il celebre critico Christian Zingales, definendo Mauro
Repetto “Kurt Cobain con il bar al posto della bara”.
Ma
torniamo a bomba, dicendo che quelli sull’universalità dell’arte e sul processo
creativo beuysiano o neo-beuysiano sono concetti, in parte, già espressi in
questo splendido corto del 2010, che mi sembra giusto riproporre per
completezza: La rivoluzione siamo noi.
“Noi,
chef, artigiani, contadini, sommelier, ristoratori, siamo tutti parte di una
grande evoluzione nel cibo. Il cibo deve allineare il mondo naturale, la
tecnologia e l’arte. Non possiamo tornare alle cucine delle nostre nonne, ma
nemmeno dimenticarle. Siamo qui per nutrire non solo le pance, ma anche palati
e menti affamate. I nostri piatti sono l’evoluzione delle nostre idee.
Dopotutto, noi siamo quello che cuciniamo”.
Come
dire: Il nostro paesaggio di riferimento è la cultura proiettata nella contemporaneità,
che amplia i nostri orizzonti e apre a infinite possibilità.”
La
cucina contemporanea è contemporaneamente più facile e più difficile di quanto
possa sembrare; più facile –se ispirata e ben eseguita – nella fruizione, più
difficile nella realizzazione. Gaber cantava “Se potessi mangiare un’idea,
avrei fatto la mia rivoluzione”. La rivoluzione è Massimo Bottura, la
rivoluzione siamo noi.
Crediti
| Immagini: Dissapore – La Francescana

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