Il caldo afoso di poche settimane fa è solo un ricordo, l’aria si fa frizzantina e si sente odore di camino, è arrivato l’autunno, la stagione delle castagne. Cosa c’è di più buono di un sacchetto di marroni arrostiti sulle braci, con quel profumo inconfondibile e quel sapore fumè che fa venire l’acquolina e aumentare la salivazione? Buonissimi da mordere caldi appena sbucciati, ma non solo, con la farina potremo metterci in cucina e preparare frittelle, torte, castagnaccio, oppure zuppe, pasta fresca, dolci al cucchiaio. Un alimento che nella storia dell’uomo ha messo in salvo intere generazioni, quando la castagna era un cibo, più che un frutto. I Greci conoscevano bene l’albero del castagno, ne ricavavano legname, corteccia, foglie e fiori per la farmacopea, ma anche il pane nero di Sparta, le sfarinate e le minestre, i latini cuocevano le castagne sul fuoco vivo, sotto la cenere, nel latte, oppure sul tegame con spezie, erbe aromatiche, aceto e miele, ci confermano Virgilio, Plinio Il Vecchio, Apicio, Marziale, mentre il medico Galeno mette prudentemente in guardia dagli effetti collaterali, ventosità, gonfiore di pancia e mal di testa. Nel medioevo sono gli ordini monastici a regimentarne la coltivazione e si afferma la professione del ‘castagnatores’, un contadino esperto del bosco che cura la raccolta e la lavorazione della castagna, anche se in quelle epoche la castagna viene relegata a cibo popolare, esclusa nei menu di corte, mentre si affranca il marrone, che qualifica una pezzatura maggiore e una qualità più elevata rivolta a un consumatore più elitario. Un frutto prezioso, nutriente, facilmente digeribile, che alcune leggende qualificano come afrodisiaco e di buon auspicio, di cui la letteratura si occuperà ampiamente, Boccaccio ne scrive nel Decamerone; Giosuè Carducci, in ’Ode Piemonte’; Giovanni Pascoli ne ‘Il vecchio castagno’; Grazia Deledda, nel romanzo ‘Cenere’; fino a Herman Hesse in ‘Narciso e Boccadoro’, insieme a Pellegrino Artusi e a Giovannino Guareschi.
Di Luca Bonacini