ORA da RE
Il maestro ineguagliato Gino Veronelli, tra le tante battaglie, pubblicazioni, iniziative a favore del mondo del vino di qualità, ebbe anche il tempo di scoprire un’incredibile vino da meditazione
di Luca Bonacini
“Non è buono
il cavaliero se non si prova sul campo della battaglia”
il cavaliero se non si prova sul campo della battaglia”
Mi consegnano
la prima “Ora da Re” e subito le memoro, le parole di Santa Caterina da Siena.
la prima “Ora da Re” e subito le memoro, le parole di Santa Caterina da Siena.
Scenda in
campo il vino del mio privilegio e mostri con orgoglio le sue insegne.
campo il vino del mio privilegio e mostri con orgoglio le sue insegne.
Luigi Veronelli
Ecco
come il geniale Veronelli, protagonista del rocambolesco rinvenimento, accolse
la consegna della prima bottiglia di Ora da Re. Tutto cominciò nel 1932, in
Sicilia, dove ebbe inizio questa intrigante vicenda, unica nel suo genere, disseminata
di una lunga sequenza di coincidenze, tali da far pensare a un destino
preordinato. In un terreno collocato ad una latitudine più a sud di Tunisi, nella
fascia collinare che sovrasta la pianura di Vittoria, in contrada Mazzaronello di
proprietà della famiglia Jacona della Motta, si verificò una straordinaria
vendemmia, e come sempre accadeva in questi casi eccezionali il vinificatore decise
di procedere aggiungendo mosto cotto nella misura dell’1-2 %, per aumentare la
capacità di invecchiamento del vino e assicurarne un’inconsueta longevità.
Sarebbe stata l’ultima vendemmia. Dopo la morte avvenuta nel 1935, del
capostipite di quell’antica dinastia, giunta nell’isola, con le armate spagnole
ben tre secoli prima, vennero espiantati i vitigni, per convertire il terreno
ad altre colture più redditizie. Quel vino prodotto in un territorio che
alterna altopiani e profondi calanchi, dove c’è una luminosità unica che si
trova solo in poche altre parti del mondo, venne posto a riposare in una piccola
cantina costruita alla maniera spagnola, solo parzialmente interrata con il
tetto di coppi, dentro a robuste botti di rovere, e lasciato ad affinare. Quel
vino, ottenuto con uve Frappato, Calabrese e Grossonero, non venne più modificato
dall’uomo in alcun modo, rimase per lunghi anni nella più assoluta
tranquillità, al silenzio, al buio. Ogni tanto qualcuno della famiglia Jacona
si ricordava di questo vino e cercava di
proporlo a mediatori della zona. Senza successo. Poi la famiglia si trasferì a
Roma e i terreni vennero frazionati e venduti a piccoli agricoltori. Quella
piccola cantina era diventata solo una fonte di problemi, e la famiglia dovette
addirittura affittare il locale di cui un tempo era proprietaria, per
conservare il vino. Qualcuno pensò addirittura di distruggere le botti e gettarne
via il contenuto. Fino a che Marida Jacona della Motta, primogenita
dell’anziano barone Salvatore, conobbe a una conferenza Piermario Meletti
Cavallari, un ex manager e produttore di Grattamacco, che informò Veronelli, dell’esistenza
di quel vino prodigioso. Dopo aver assaggiato, quel miracolo enologico
assolutamente irripetibile, Veronelli ne scrisse un entusiasmante articolo. Il
mondo del vino ebbe un sussulto, vennero interessati all’acquisto i grandi produttori
di Marsala, da De Bartoli in giù, e il Ministro dell’agricoltura Pandolfi, poi cambiò
il governo. Sembrava di trovarsi di fronte a una nuova battuta d’arresto, finchè
un campione giunse nelle mani di due manager di un importante consorzio vinicolo
siciliano che decise di buttarsi
nell’avventura. Quando venne fatto il sopraluogo si trovarono di fronte a una
cantina semi crollata, e fu solo grazie a un agile vecchietto se riuscirono ad
avvicinarsi alle botti e a prelevare i campioni da inviare all’Istituto di San
Michele all’Adige, uno dei più autorevoli a livello europeo. Di tutte le botti,
quelle di grande interesse erano solo tre. Nessuno volle credere che un vino di
quell’età fosse ancora cosi perfettamente vivo ed equilibrato. Il pregiato
liquido, paragonabile alle migliori riserve di Sherry, Porto e Madera, venne
cosi trasferito con mille precauzioni. Le botti vennero smontate accuratamente,
e le doghe in legno utilizzate per realizzare gli astucci, per non separare il
prezioso vino da quello che è stato il suo contenitore naturale per decenni. Ora
da Re: mai nome fu più adatto a un liquido di tale caratura, e fu chiamato Veronelli,
che tanta parte aveva avuto in questa vicenda a trovare il nome più appropriato.
Vennero superati insormontabili problemi dal punto di vista legislativo, e
finalmente venne scelto il luogo per la presentazione di Ora da Re: l’isola di
Formica, un piccolo scoglio dell’Arcipelago delle Egadi, fatto rifiorire
all’antico splendore dalla gestione e dai restauri accurati, della Comunità di
Frate Eligio, dove ebbe luogo una presentazione senza precedenti, alle
autorità, al mondo del vino e alla stampa, per un prodotto di qualità eccelsa
che finalmente tutti potevano condividere, destinato principalmente alle aste
internazionali, ma in parte commercializzato in piccoli lotti, “… senza nessuna fretta, se è stato 56 anni
in botte, potrà stare almeno lo stesso periodo in bottiglia”.
come il geniale Veronelli, protagonista del rocambolesco rinvenimento, accolse
la consegna della prima bottiglia di Ora da Re. Tutto cominciò nel 1932, in
Sicilia, dove ebbe inizio questa intrigante vicenda, unica nel suo genere, disseminata
di una lunga sequenza di coincidenze, tali da far pensare a un destino
preordinato. In un terreno collocato ad una latitudine più a sud di Tunisi, nella
fascia collinare che sovrasta la pianura di Vittoria, in contrada Mazzaronello di
proprietà della famiglia Jacona della Motta, si verificò una straordinaria
vendemmia, e come sempre accadeva in questi casi eccezionali il vinificatore decise
di procedere aggiungendo mosto cotto nella misura dell’1-2 %, per aumentare la
capacità di invecchiamento del vino e assicurarne un’inconsueta longevità.
Sarebbe stata l’ultima vendemmia. Dopo la morte avvenuta nel 1935, del
capostipite di quell’antica dinastia, giunta nell’isola, con le armate spagnole
ben tre secoli prima, vennero espiantati i vitigni, per convertire il terreno
ad altre colture più redditizie. Quel vino prodotto in un territorio che
alterna altopiani e profondi calanchi, dove c’è una luminosità unica che si
trova solo in poche altre parti del mondo, venne posto a riposare in una piccola
cantina costruita alla maniera spagnola, solo parzialmente interrata con il
tetto di coppi, dentro a robuste botti di rovere, e lasciato ad affinare. Quel
vino, ottenuto con uve Frappato, Calabrese e Grossonero, non venne più modificato
dall’uomo in alcun modo, rimase per lunghi anni nella più assoluta
tranquillità, al silenzio, al buio. Ogni tanto qualcuno della famiglia Jacona
si ricordava di questo vino e cercava di
proporlo a mediatori della zona. Senza successo. Poi la famiglia si trasferì a
Roma e i terreni vennero frazionati e venduti a piccoli agricoltori. Quella
piccola cantina era diventata solo una fonte di problemi, e la famiglia dovette
addirittura affittare il locale di cui un tempo era proprietaria, per
conservare il vino. Qualcuno pensò addirittura di distruggere le botti e gettarne
via il contenuto. Fino a che Marida Jacona della Motta, primogenita
dell’anziano barone Salvatore, conobbe a una conferenza Piermario Meletti
Cavallari, un ex manager e produttore di Grattamacco, che informò Veronelli, dell’esistenza
di quel vino prodigioso. Dopo aver assaggiato, quel miracolo enologico
assolutamente irripetibile, Veronelli ne scrisse un entusiasmante articolo. Il
mondo del vino ebbe un sussulto, vennero interessati all’acquisto i grandi produttori
di Marsala, da De Bartoli in giù, e il Ministro dell’agricoltura Pandolfi, poi cambiò
il governo. Sembrava di trovarsi di fronte a una nuova battuta d’arresto, finchè
un campione giunse nelle mani di due manager di un importante consorzio vinicolo
siciliano che decise di buttarsi
nell’avventura. Quando venne fatto il sopraluogo si trovarono di fronte a una
cantina semi crollata, e fu solo grazie a un agile vecchietto se riuscirono ad
avvicinarsi alle botti e a prelevare i campioni da inviare all’Istituto di San
Michele all’Adige, uno dei più autorevoli a livello europeo. Di tutte le botti,
quelle di grande interesse erano solo tre. Nessuno volle credere che un vino di
quell’età fosse ancora cosi perfettamente vivo ed equilibrato. Il pregiato
liquido, paragonabile alle migliori riserve di Sherry, Porto e Madera, venne
cosi trasferito con mille precauzioni. Le botti vennero smontate accuratamente,
e le doghe in legno utilizzate per realizzare gli astucci, per non separare il
prezioso vino da quello che è stato il suo contenitore naturale per decenni. Ora
da Re: mai nome fu più adatto a un liquido di tale caratura, e fu chiamato Veronelli,
che tanta parte aveva avuto in questa vicenda a trovare il nome più appropriato.
Vennero superati insormontabili problemi dal punto di vista legislativo, e
finalmente venne scelto il luogo per la presentazione di Ora da Re: l’isola di
Formica, un piccolo scoglio dell’Arcipelago delle Egadi, fatto rifiorire
all’antico splendore dalla gestione e dai restauri accurati, della Comunità di
Frate Eligio, dove ebbe luogo una presentazione senza precedenti, alle
autorità, al mondo del vino e alla stampa, per un prodotto di qualità eccelsa
che finalmente tutti potevano condividere, destinato principalmente alle aste
internazionali, ma in parte commercializzato in piccoli lotti, “… senza nessuna fretta, se è stato 56 anni
in botte, potrà stare almeno lo stesso periodo in bottiglia”.