GABRIELE D’ANNUZIO A TAVOLA

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Gabriele d’Annunzio
e l’enogastronomia della memoria
Poteva
mancare, in occasione del 150° anniversario della nascita di Gabriele
d’Annunzio, un libro sulle sue relazioni con la cucina e la gola? Sicuramente
no, anche se il Vate non fu certo un raffinato gourmet. Era però un attento
cultore delle tradizioni e dei sapori della sua terra, l’Abruzzo. Ce ne parla
Enrico Di Carlo, autore del libro “Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia
della memoria”.

Per
un personaggio poliedrico, eccentrico, come Gabriele d’Annunzio, che fece – per
sua stessa ammissione – della propria vita un’opera d’arte, potrebbe apparire
marginale o addirittura trascurabile passare in rassegna le testimonianze sui
rapporti con la gastronomia della regione nativa.
Ma,
evidentemente, non è così perché quello che conta in d’Annunzio è l’essenzialità
storica della cucina abruzzese: una essenzialità fatta di calore umano, di
ricordi di tempi lontani, di sentimenti, di affetti familiari, di nostalgia per
il tempo perduto e non ritrovato.
Ed
è proprio la nostalgia la chiave di lettura, il filo rosso che lega tra loro il
salamino pepato della Maiella, le triglie allo spiedo, il cacio vermicoloso, il
brodetto di pesce alla vastese, i maccheroni alla chitarra, preparati con una
“specie di arpa cuciniera a sezione rettangolare, e che si suona con le mani in
piano orizzontale”. È la nostalgia per la sua Terra, che si fa sempre più
struggente col passare degli anni, fino a diventare malinconia nel Notturno e
nel Libro segreto, al centro dei quali si pongono preminenti i due grandi amori
del poeta: la madre e la città natale. A questi motivi si ricollegano i
frequenti richiami della memoria: il profumo del pane recente “che si spandeva
dal forno di Flaiano”, che dista pochi passi dal palazzotto avito di Pescara;
“la zuppa rustica all’uso del paese, ricca di zenzero, colorita e odorante”,
che Giorgio e Ippolita, nel Trionfo della morte, mangiano sul terrazzo
dell’eremo rustico di San Vito Chietino; il cacio pecorino che un servitore gli
porta ogni mattina su un antico piatto in ceramica di Castelli; la “porchetta
d’oro” regalatagli dal ministro Giacomo Acerbo, conterraneo, che ispira a
d’Annunzio uno dei più nostalgici sonetti dialettali; e il dolce Parrozzo di
Luigi D’Amico, da quel pane rozzo dei contadini abruzzesi, attaccandosi al
quale avverte la suggestione di succhiare da esso la parte più genuina della
sua regione. Per lui questi elementi semplici, di una cucina realmente povera,
rappresentano il pretesto per recuperare un rapporto lontano con la sua Terra e
la sua gente.
Non
si comprenderebbe altrimenti il significato di questo libro se non fosse chiaro
che ogni riferimento positivo a quello che in apparenza sembrerebbe cibo del
popolo, va inquadrato per ciò che esso è realmente, cioè cibo della casa e,
quindi, della madre.
Non
si comprenderebbe se pensassimo a quanto poco mangiava il poeta, soprattutto
durante gli anni del Vittoriale. Nella sua ultima dimora aveva introdotto per
sé e per gli altri un vero e proprio regime dietetico. Così scrive al pittore
Francesco Paolo Michetti che lo era andato a trovare: “Certo, ignori la regola
del Vittoriale. Io, Abruzzese schietto, da gran tempo ho abolito l’abbottatura
in forma di rimpatriata. Esporrò, a te igienista antico, la mia teoria del
digiuno. Per esempio, mentre scrivo, son digiuno da 38 ore. Alla mezzanotte
prenderò un lieve pasto”. Non sempre, in realtà, questi pasti erano lievi.
Ultimati i digiuni, riprendeva a mangiare “come un feroce lupo della Maiella”.
Stanotte” confessa “ho mangiato con una furia bestiale. Ho ingoiato tutte le
triglie dell’Adriatico. E sono stato molto male, dopo: e sto ancora male”.
Quando
il suo medico provava a fargli notare l’insensatezza di una simile dieta, si
sentiva rispondere piccato: “Noi in Abruzzo ci curiamo così, e si campa
cent’anni. Un pastore della Majella ne sa piú di te”. In questo libro, che esce
dopo tre anni dalle prime due fortunate edizioni di Gabriele d’Annunzio e la
gastronomia abruzzese, si approfondisce, in particolare, il rapporto dello
scrittore con il vino e con l’alcol. Argomento particolarmente interessante,
soprattutto in considerazione del fatto che d’Annunzio era astemio, come
confermano i suoi più accreditati biografi.Egli era convinto che il vino
potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a
sostenere “che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon
beone”. E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Barth,
al momento della pubblicazione del libro guida alle osterie d’Italia. Eppure,
l’occasione è propizia per tessere le lodi della Vernaccia di Corniglia, sul
litorale delle Cinque Terre, “celebrata già dal Boccaccio e annoverata dal
poeta tra le delizie offerte agli ospiti vegnenti nella feria d’agosto”; e
dell’olente vino d’Oliena al quale d’Annunzio lega il ricordo di quando, in compagnia
di Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, giunse nella “ospitale Sardegna tra
i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate”.
Al
Montepulciano d’Abruzzo riserva un uso molto più familiare. Il primo dicembre
1932 scrive ad Acerbo per ringraziarlo del restauro della casa pescarese, e per
invitarlo al Vittoriale “pe’ magnà ‘nghe me nu belle piatte de maccarune e pe’
beve nu bicchierucce de montepulciane”. Eppure, è ancora una volta dai liquori
abruzzesi che prova le suggestioni più intense. Così come intenso è il rapporto
epistolare con Amedeo Pomilio, creatore del liquore Aurum. Davanti a una cassa
colma di doni che quest’ultimo gli aveva fatto recapitare al Vittoriale, che
gli “toccano la cima del cuore prima di deliziare il palato”, d’Annunzio avverte
addirittura la presenza della mamma che gli sorrideva dall’ombra: “E la mia
tristezza estuava come la foce della nostra Pescara”. Mentre, nella lista dei
vini e dei liquori, presenti nella cantina del Vittoriale, compaiono due
bottiglie di Amaro Majella, prodotto dal chietino Giulio Barattucci che, nel
1858, aveva ottenuto il Corfinio dalla distillazione di 42 erbe raccolte lungo
i sentieri della Maiella. Il poeta, ancor giovane, aveva definito “odoroso”
quel liquore che aveva contribuito a plasmare l’atmosfera delle dimore
dannunziane e soprattutto quella del Cenacolo francavillese.
  
Gabriele
d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria
di Enrico Di Carlo,
presentazione di
Lia Giancristofaro,
disegno di
copertina di Marco Martellini
Ed. Verdone | pagg.
120 | euro 10

Crediti
| Link : Gambero Rosso

One Response to GABRIELE D’ANNUZIO A TAVOLA

  1. @enio ha detto:

    strano che si desse al vino, ho sempre saputo che fosse astemio e fin da piccolo beveva il vino ma mischiato sempre all'acqua.So invece che aveva una particolare predilezione per le droghe leggere, pare che avesse scoperto che agissero sulla mente aumentandone la capicà visiva… cosa che fu scopetta anche dai cantanti negli anni 70 per eccellere nelle loro prestazioni. Non mi è mai piaciuto come uomo che consifero, causa il suo priapismo, un malato di sesso…. sfrenato e poi perchè ci ha tramandato al mondo con la sua poesia come un popolo di pastorelli. So che amava molto copiare nei suoi scritti e prova ne è la sua immensa bibliografia del vittoriale. Io comunque lo detesto, nei miei scritti, quanto tu lo ami.

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